Style1, all’anagrafe Andrea Antoni, è un graffiti-writer, grafico ed esperto di Instagram originario di Monfalcone (Go) con con cui ho avuto il piacere di collaborare in numerosi progetti di street art dedicati ai ragazzi (tra cui Dreams on the wall). Per capire quello che crea la cosa migliore è spulciare sul suo sito o sulla sua pagina FB le decine di progetti a cui ha partecipato e per apprezzare il suo humor è consigliato seguirlo nelle sue irriverenti stories su FB e Instagram @stailuan , in particolare per il progetto @cosebrutteimpaginatebelle .
In questa intervista vorrei approfondire alcuni aspetti dei suoi progetti partendo da quello che lo ha maggiormente impegnando ultimamente e cioè la pubblicazione del libro “La Situa”, per poi passare al mondo dei graffiti e cercare qualche link con la musica e il mondo del punk rock (le fanzine ad esempio…). Vediamo come va…
PE94: L’ultima volta che ci siamo visti mi hai regalato il tuo “black book”, che ha avuto un incredibile successo, dal titolo “La Situa. Il disagio dell’Italia in lockdown raccontato su Instagram”, che nasce appunto dalla tua pagina Instagram “Cose brutte Impaginate belle”: ci racconti che cos’è e com’è nato questo progetto sui social e perchè è finito sulla carta?
Style1: Il libro de “La Situa” sta per tagliare il traguardo impensabile, quando lo scrissi, delle 3000 copie. Sono arrivato a quota 2900 e, ora, ho mandato in stampa 100 copie in tiratura limitata con una copertina differente e una stopper allegata, sempre a tiratura limitata.
Ma, tornando indietro, il tutto è nato da Instagram, dal mio profilo CBIB (@cosebrutteimpaginatebelle) di cui “La Situa” è ormai l’appuntamento più noto, presente nelle sue stories. Di base il tutto è molto semplice: quando l’Italia entrò in lockdown decisi di chiedere ai miei followers come stessero, per l’appunto quale fosse la (loro) Situa. Ne nacque un appuntamento quotidiano nel quale, alle 18:00, io condividevo quello che mi scrivevano le persone, mettendoci un mio punto di vista, una battuta. Il tutto mentre facevo spinning, visto che qualcosa dovevo fare per tenermi in movimento ma pedalare al chiuso non mi piace e così passavo il tempo. Saltando molti passaggi, ad un certo punto il lockdown finì ma La Situa continuò, a differenza dell’ipotesi iniziale di sua fine in concomitanza con la fine del “restiamo distanti ma uniti”. Ad ogni modo mi resi conto che avevo salvato una serie di avventure incredibili, delle quali in realtà ce ne stavamo già dimenticando e quindi decisi di creare una narrazione ironica di questa fotografia data dagli italiani chiusi in casa. Creai questo libro, che è una sorta di diario di non-viaggio (sia mio personale, che del sempre più nutrito gruppo di persone che mi seguivano) relativo all’allucinante periodo storico che abbiamo avuto la (s)fortuna di vivere, noto come lockdown. Giorno dopo giorno si ripercorrono le notizie relative al Covid, con miei punti di vista ironici e eventi casalinghi divertenti da parte delle varie persone che mi scrivono. Perché ho deciso di portarlo su carta: perché volevo elevarlo. Da grafico cartaceo quale sono, considero comunque il prodotto libro cartaceo come qualcosa di bello, di gradevole da custodire.
La Situa è nata su Instagram, ma la sua testimonianza resta su carta. E non esiste in digitale primo perché se vuoi La Situa online puoi vivere ogni giorno su IG, secondo perché ho risolto il problema relativo alla pirateria degli epub in questo modo. Un poco estremo, ma in linea con la mia persona. Il libro è nato grazie a un’azione di crowdfunding, con la quale era previsto mandare in stampa 100 copie: a conclusione della campagna il progetto è stato finanziato al 1914%.
Cosa ti ha maggiormente sorpreso delle persone che hanno interagito con le tue stories durante il lockdown?
La cosa che maggiormente mi stupisce tutt’ora è la confidenza che si sono presi, raccontandomi cose anche estremamente intime. Poi è chiaro che tutto è assolutamente anonimo, ma io vedo chi mi scrive. Molti mi domandano “ma perché ti scrivono queste cose?”. Io non lo so, però sono diventato una sorta di confessore laico di mezza nazione. E la cosa mi diverte molto.
Quali le storie più bizzarre?
Una delle “Situe” migliori, rimaste nell’immaginario collettivo a livello leggendario, è quella di una ragazza che mi scrisse di essersi rotta due costole facendo sesso. Ogni richiesta di chiarimento non venne mai recepita e quindi, anche per questo motivo, è rimasta per tutti come una Situa bellissima. Probabilmente ottenendo una risposta al “come” sarebbero decadute molte ipotesi, rimanendo così, sospesa nell’immaginifico, ha lasciato a tutti il modo di fantasticare sulla dinamica dell’accaduto.
Ci siamo conosciuti quando tu portavi in giro Be happy project “Il progetto dei fiorellini felici … che portano messaggi positivi alla cittadinanza” attraverso sticker e graffiti; rispetto a “La Situa” che è “ educazione alla bellezza, tramite empatia del disagio” sembra di avere a che fare con un artista diverso, o comunque che ha fatto un percorso di cambiamento, condividi? I due progetti convivono ora?
Diciamo che sono due progetti molto differenti, nati in periodi ben diversi, ma che hanno comunque una radice similare. Be Happy Project era nato come un progetto di graffiti e street art illegali, Cose Brutte Impaginate Belle è nato come una serie di grafiche per i social e quasi 20 anni dopo. Be Happy Project sono fiori sorridenti, colori, cuori, arcobaleni e nuvolette svolazzanti, CBIB è testo in bianco e nero, rigidamente impaginato in Helvetica. Di mezzo tra i due c’è una profonda crisi esistenziale dovuta alla fine del mio rapporto con Sabrina, e molti anni di studi grafici e di impegno e studio. Ma la base, per assurdo è similare. Be Happy Project parte dal concetto che in un mondo grigio e triste serve un fiore colorato e sorridente, posizionato in un punto inaspettato della città, per cercare di farti nascere un sorriso e ricordarti di poter essere felice. CBIB, invece, prende il disagio e il male esistenziale e gli dà contro di petto ricordandoti che sì, fa tutto un poco schifo, siamo pieni di falsi miti, falsi dei, cosmesi esasperata e falso storytelling esistenziale che ci fanno credere di essere inadatti e sfigati. Ma non è così. Prendiamo questo disagio, rendiamoci conto che c’è, ma ironizziamoci. Be Happy Project ha una visione più bambinesca e popolare del problema, e in questo modo lo affronta. Cose Brutte Impaginate Belle, come da nome, prende il brutto e lo rende divertente e affascinante, lo edulcora da inutili vezzi grafici e lo pone con divertente durezza. A mio avviso è semplicemente un ragionamento più maturo della medesima cosa, una visione laterale del medesimo problema e un modo di affrontarlo differente che non cozza con Be Happy, ma semplicemente utilizza canali differenti.
Veniamo ai graffiti: cosa o chi ti ha avvicinato al mondo del graffiti-writing quando eri ragazzo? Ci racconti i tuoi inizi e com’era la situa in quel periodo?
Ho iniziato nell’oramai lontano 1997, in modo quasi spontaneo: in quegli anni in Italia ci fu un forte ritorno della cultura Hip Hop (della quale in writing ne è una delle quattro componenti), iniziai ad appassionarmi al rap -soprattutto italiano- e cominciai ad esplorare le componenti di questo movimento. Come dicevo le componenti di questa cultura sono quattro: DJing, MCing, Breaking e Writing, io semplicemente ritenni quest’ultima la più adatta alle mie corde. Poi chissà: magari sarei potuto diventare un breaker bravissimo, magari mi sarei rotto un crociato dopo pochi passi (cosa comunque portata a compimento, ma giocando a calcio). Detto questo, all’inizio “La Situa” era molto ostile, la cosiddetta “Style War” era prepotente, nessuno ti insegnava nulla e la competizione era veramente elevata. Tieni presente che nella sola Monfalcone dipingevamo in 20 o più, quindi puoi capire che la competizione era veramente forte. Da un lato questo è stato complicato perché spesso il clima era veramente pesante e ti domandavi “chi te lo facesse fare”, ma da un altro punto di vista fu un enorme stimolo per emergere migliorando, pezzo dopo pezzo.
Oltre alla Style War immagino la difficoltà fosse anche che disegnavate illegalmente, di notte in luoghi poco raccomandabili, era proprio così? Ora quest’arte è stata sdoganata e si passati praticamente quasi esclusivamente alla legalità, cosa c’è di positivo e negativo in questo cambiamento?
Diciamo che ai tempi ottenere pareti legali dove dipingere era molto più complesso ma, per quanto riguarda le nostre zone (e intendo in modo esteso tutto il Friuli Venezia Giulia), non è mai stato particolarmente complesso riuscire ad avere dei permessi per delle Hall of Fame. Più che altro diventava quindi una scelta tra la parte più “pura e adrenalina” del writing, e una più tesa alla ricerca artistica. Per quanto riguarda i luoghi “poco raccomandabili” dipende: ho dipinto in tutte le principali città italiane senza vederne mai il centro prima di andarci come semplice turista. Ai tempi i permessi venivano dati esclusivamente in periferie degradate e luoghi che erano tutto tranne che “raccomandabili”, non come ora che dipingere su intere facciate di palazzi in centro è di moda, legale e pagato. Di conseguenza il “dipende” vale sempre un poco su tutto e sempre. Il grande cambiamento del writing non è avvenuto tanto tra l’illegale e il legale (writers che facevano graffiti poderosi come in hall of fame legali ce ne sono sempre stati), ma quando è divenuto interessante per i galleristi e ha iniziato a fruttare denaro. Entrando nelle biennali, e nelle mostre di arte contemporanee, il writing si è snaturato, di base il movimento si è proprio “rotto” e ha iniziato a prendere il sopravvento la cosiddetta street-art. Sono aumentati a dismisura i figurativi (prima secondari ai lettering), tendenzialmente perché più commerciali (anche se chi li fa non lo ammetterà). Ma hanno iniziato a fare pareti un sacco di persone totalmente esterne alla cultura del writing o dell’hip hop, utilizzando altre tipologie di materiali e avendo un approccio totalmente differente: la parete diventava semplicemente un’enorme tela da dipingere. Siamo riusciti troppo spesso a far passare per graffiti o street art banali (magari bellissime) opere di abbellimento urbano. Il writing comunque è rimasto vivo, ma in modo meno evidente, tornando nella sua forma più underground di graffiti illegali, magari per il bombing, su metro e treni.
Ad ogni modo se molte persone dipingono, a me sta bene, contaminazioni di stili sono positive, il rischio era che il writing diventasse qualcosa di statico e ancorato allo stile NY fine anni settanta (e ci hanno provato a farlo), ma sarebbe stato sbagliato. Bisogna evolvere e mutare sempre, a volte si sbaglia, ma si può tornare indietro. Chiudi una porta, dipingerai un portone.
Che musica ascoltavi all’epoca? Avevate gusti musicali similari tra i graffiti-writer? Aveva un ruolo importante o era solo un contorno?
Come dicevo precedentemente, la musica era una componente non dico fondamentale ma comunque molto forte all’interno del movimento. Io stavo iniziando ad ascoltare HipHop italiano, cosa che faccio tutt’ora, e la maggior parte di quelli che dipingevano facevano lo stesso. Si ascoltava anche molto rap americano, ma personalmente meno. C’è da dire che non sono mai stato un grande intenditore o conoscitore musicale, questo non posso fare a meno di ammetterlo, ad ogni modo la musica non era un contorno ma era una componente non trascurabile del movimento.
Un parallelo tra il mondo del graffiti-writing e il movimento del punk rock era l’utilizzo delle fanzine come mezzo di comunicazione e di diffusione della cultura. Come funzionava per i writer questo strumento cartaceo?
La fanzine è stato uno strumento determinante per conoscere altri stili ed altre persone, prima dell’avvento di internet. Potremmo definire queste produzioni in tre macro gruppi:
• le fanzine fotocopiate in bianco e nero, realizzate da singoli che le “impaginavano” incollando foto e scrivendo direttamente su fogli A4 che poi (per l’appunto) fotocopiavano e pinzavano a mano. A volte le vendevano, altre le regalavano. Il risultato era osceno, ma la loro importanza incredibile.
• le fanzine a colori: solitamente più strutturate, erano dei piccoli progetti editoriali a cadenza casuale, annuale o – se andava benissimo – verso gli ultimi tempi, semestrale. Erano prodotti che avevano tirature sconosciute, rintracciabili o in negozi che vendevano bombolette spray o tramite conoscenze alle jam. La qualità solitamente era buona sia nella stampa che nella carta, costavano attorno alle 10mila lire se non ricordo male. Qui si crea un aneddoto interessante: tu vedevi i pezzi di writers bravissimi e questi ti risultavano incredibilmente ispirazionali. E tu attorno a questi ci creavi le tue nuove bozze, grazie alla scoperta di nuovi loop, nuove colorazioni o semplicemente nuovi stimoli. Il problema è che quando una persona realizzava un’opera la fotografava, poi passava un bel poco di tempo prima che arrivasse a 24 o 36 scatti per concludere il rullino e andare a portarlo a sviluppare. Ottenuti gli scatti li si mandava alla fanzine di riferimento che si prendeva alcuni mesi di tempo per reperire il materiale fotografico prima di andare in stampa. Poi andava in stampa. Finalmente, prima o poi la riuscivi ad acquistare. In prativa quello che per te era “novità” era un lavoro che in realtà aveva già dai 12 ai 18 mesi e in pratica stavi facendo la rincorsa sul livello passato di un altro artista.
• i progetti editoriali. Ricordo AELLE perché è stato probabilmente il progetto più strutturato. Aveva cadenza mensile, se non ricordo male, e lo si acquistava nelle edicole di tutta Italia. Era una rivista che trattava l’HipHop in tutte le sue discipline e, via via, ha dato sempre meno risalto al writing. Per quanto non sia mai stato comunque parte particolarmente centrale del prodotto. Con il passare del tempo e l’avvento dei social network poi, e dei portali di writing (come il mio Aerosolart.it tra l’altro), la sua funzione è venuta meno e, dopo non saprei dire quanti anni, ha chiuso i battenti.
Con l’avvento di internet tutto è cambiato, tutto è passato on line, tutto più veloce e facile, tutto più comodo, un contesto molto diverso da quello in cui è nato il writing (e anche il punk rock), quanto è stata rivoluzionata l’essenza di questa sottocultura? Cosa è stato perso di più significativo e quali i pregi di questo cambiamento per il mondo del writing? Com’è la Situa attuale?
Internet ha cambiato il modo di pensare l’approccio a questa disciplina, facendo emergere nuove tendenze. Il figurativo è molto più presente sotto varie forme anche perché più commerciale e fruibile a livello di “like” sui social network. Dipingere su treni che portano in giro il tuo nome non è più necessario: si può realizzare un’opera dentro edifici dismessi e farla girare ovunque grazie alla rete. LA scena è esplosa, si è slegata e sono nate nuove tipologie di artisti: alcuni sono più legati a forme aggregative del passato, altri seguono strade nuove, nate negli ultimi anni. Mediamente il livello delle opere è molto più alto, ma molto spesso (per l’appunto) non parliamo di writing ma di street art o murales. Di mio dipingo sempre meno perché ho meno tempo e spendo la mia creatività, come diceva la tua domanda, in forme “artistiche” digitali legate ai social network ma quanto dipingo su parete sono quello del 1997: in costante sfida con me stesso, alla ricerca del tratto perfetto, della combinazione di colori esaltante e, soprattutto, innamorato profondamente dello studio della lettera.
Ringraziando Style1 per la disponibilità e pazienza vi invito a seguirlo sulle varie piattaforme social ( www.andreaantoni.it ) per rimanere aggiornati sulle sue varie attività artistiche. Di spunti interessanti questa intervista me ne ha dati molti, ad esempio ha fatto emergere come culture diverse come quella dell’hip hop e quella del punk rock abbiano avuto per molti aspetti percorsi simili e paralleli ma che solo raramente si sono incontrati.